Discorso per la consegna delle licenze del Collegio Superiore – 16 giugno 2017

Buon pomeriggio a tutti.

Mi presento: mi chiamo Nicola Di Leva e ho frequentato il Collegio dal 2007 al 2013, laureandomi in ingegneria energetica.

Lasciate innanzitutto anche me fare le congratulazioni alle ragazze ed ai ragazzi che oggi ricevono la licenza del collegio. Mi ricordo che quanto toccò a me ero molto emozionato e sono sicuro che anche voi sentite l’importanza del momento di passaggio dall’esperienza di studi al mondo del lavoro.

Sono qui per descrivere il mio percorso dopo la licenza del Collegio. Non perché lo ritenga più significativo di altri, ma semplicemente perché è quello che conosco meglio.

Ma prima, vorrei raccontare un episodio che dimostra in modo inconfutabile quanto gli ex-allievi possono dare una mano agli studenti del collegio, oltre a quanto già ricordato Alessio. Durante il mio ultimo anno di studi ero a Berkeley, in California. Un giorno, all’inizio di quella esperienza, ero in un laboratorio informatico del dipartimento quando ricevetti una strana email. Ve la leggo:

Nicola,

Sono un ex-collegiale e studente di dottorato a Ingegneria Nucleare a Berkeley. Il mio labmate ha trovato il tuo portafoglio davanti a Etcheverry. E dalla mailinglist del collegio ho trovato il tuo indirizzo di posta.

Chiamami per riaverlo al numero…., o vieni al mio ufficio

saluti,

Christian D. Di Sanzo,

Vi immaginate il mio stupore… rovistai la borsa in cerca del portafogli e naturalmente non lo trovai. Andai a cercare Cristian, che mi raccontò che il suo compagno di laboratorio aveva trovato il mio portafogli, ed essendoci un carta d’identità italiana gliela aveva portata dicendogli: “Magari lo conosci”. Cristian gli ha fatto notare che in Italia siamo 60 milioni di persone, eppure su Google ha scoperto che c’era un forte legame tra noi: il collegio, appunto.

La morale è: per quanto possiate andare lontano e sentirvi soli e persi, come mi sentivo io allora, non dovete escludere la possibilità che ci sia un ex-collegiale pronto a soccorrervi quando meno ve l’aspettate!

E ora procedo a raccontare il mio percorso. Non temete, sarò breve.

Il mio percorso post-laurea inizia dal divano. Ero spaparanzato lì a godermi il meritato riposo dalle fatiche della tesi e della discussione, avvenuta solo un paio di giorni prima, quando ricevetti una telefonata.

Cercavano l’ingegner Di Leva… avevano trovato il mio curriculum su AlmaLaurea e volevano farmi un colloquio. Per farla breve, andai e mi assunsero. Devo decisamente ringraziare il consorzio AlmaLaurea.

Spero che il questionario l’abbiate compilato tutti bene!

Così è iniziato il mio percorso lavorativo alla NIER Ingegneria: una società di consulenza ingegneristica nonché laboratorio di ricerca di un centinaio di persone alle porte di Bologna, dove lavoro tutt’ora. E’ una società che si pone l’ambizioso obiettivo di rappresentare un ponte tra le università e le imprese.

Se dovessi spiegare di cosa mi occupo con un’immagine, vi invito a ricordare l’ultima volta che avete fissato sconsolati il tabellone delle partenze in stazione e accanto al treno che stavate aspettando avete letto il freddo, implacabile conteggio dei minuti di ritardo. Magari avreste avuto voglia di poter strangolare il colpevole di tale ritardo. Ecco, esagerando, la prossima volta potete pensare a me: mi occupo infatti di ingegneria dell’affidabilità, la disciplina che studia le condizioni di guasto di un sistema tecnologico, con l’ovvio intento di ridurle al minimo. In particolare lavoro nell’ambito ferroviario, per l’appunto, e nucleare.

Non ho intenzione di farvi una lezione di ingegneria dell’affidabilità, benché sia un argomento affascinante. Mi limito a dire che è una disciplina che, insieme ad altre, accompagna lo sviluppo di sistemi tecnologicamente complessi, dalla concezione iniziale alla progettazione, fino alla messa in servizio.

Alla NIER, sto imparando quanto il contesto aziendale sia profondamente diverso rispetto a quello universitario. O perlomeno, quanto sia diverso rispetto a ciò che si vive da studente. Ho capito che in azienda il proprio lavoro dipende da quello degli altri e quello degli altri dal proprio. Un proprio errore ha il potenziale di avere conseguenze sull’azienda e un proprio successo può diventare il successo di tutti. Ogni tanto questo fa paura, ma fa anche sentire importante ciò che si fa.

Nel mio lavoro, l’interdisciplinarità è la regola (ancora non avevo usato la parola magica, no?). Capita di dover analizzare circuiti elettronici, compiere analisi statistiche, studiare componenti meccanici e sistemi informatici, sempre con una buona consapevolezza degli scherzi che lavorare con le probabilità (di guasto) può nascondere. In una società di consulenza, con clienti diversi che lavorano in ambiti diversi, questa varietà viene ancora aumentata.

Piano-piano sono arrivate altre responsabilità. Da poco mi hanno infatti affidato un paio di persone neoassunte da formare e gestire e questa è una nuova e stimolante sfida.

Con questo vorrei dire che le competenze tecniche non sono minimamente sufficienti per giocare un ruolo in azienda. Da quel che ho capito fin ora, servono entusiasmo e pazienza, senso dell’iniziativa e rispetto delle gerarchie. In generale, la capacità di muoversi in un contesto sociale complesso, caratterizzato dalla diversità di ruoli, opinioni e provenienze.

Il mio percorso non è stato solo lavorativo. Circa n anno e mezzo fa mi sono unito ai volontari di Piazza Grande, un’associazione di volontariato bolognese che si occupa di persone senza dimora. Per chiarirci, quella che distribuisce l’omonimo giornale in strada. Mi sono ritrovato a dare vita, insieme ad altri volontari e operatori, ad un nuovo progetto chiamato: “Scuola Libera”. Si tratta, come è facile immaginare, di una scuola per persone senzatetto.

La logica del progetto è che le persone senza dimora possano avere voglia di tornare a scuola e che questo possa aiutarle ad affrontare meglio la propria vita, a guadagnare un po’ di fiducia in sé stessi. Una scuola informale, libera per l’appunto, senza voti né giudizi, dove si sta insieme e si impara qualcosa. Anche solo a stare seduti ad ascoltare qualcuno che parla.

Ho quindi iniziato ad insegnare matematica presso l’Happy Center, un centro diurno in Bolognina. All’inizio non è stato semplice. Come immagino molti di voi, non avevo mai parlato con una persona senza dimora. Non sapevo cosa dire, temevo di essere indiscreto ad ogni domanda che mi venisse in mente, o offensivo ad ogni cosa che dicessi. Non sapevo nemmeno a che livello dovessi fare lezione, e che cosa potesse interessare.

Ho scoperto un mondo. Il mondo di chi ha un vissuto completamente diverso dal mio e da tutte le persone che mi circondano e che ha problemi talmente diversi, più urgenti e allo stesso tempo più banali dei miei, che facevo fatica a comprendere.

Piano piano, grazie anche all’aiuto degli operatori di Piazza Grande, sono, forse, riuscito a creare un canale di comunicazione. Ho capito che lezioni fare, e come, spero, riuscire a renderle interessanti. Spesso non è rilevante l’argomento che trattiamo, ma il fatto che siamo tutti insieme a cercare di capire un argomento difficile, senza però troppe pretese. Forse però quanto ho tentato di spiegare perché l’insieme dei numeri irrazionali non è numerabile, ho esagerato.

Pochi mesi fa, sono passato a insegnare italiano al Rostom, un centro di accoglienza 24 ore su 24 per persone senza dimora e migranti (regolari o meno) che hanno problemi di salute tali per cui non possono vivere in strada.

Lì ho incontrato A., una ragazza nigeriana poco più che ventenne con lunghi rasta rosa. L’anno scorso è andata in prefettura per fare l’audizione per ottenere l’asilo in Italia. L’audizione fu fatta in inglese, ma il verbale fu compilato in italiano, lingua che lei non parla. La settimana scorsa, A. ha avuto la sua seconda audizione, e aveva bisogno di verificare cosa si fosse detto un anno fa. Quindi mi ha chiesto di tradurle il verbale in inglese.

Così, ho avuto modo di conoscere la sua storia.

Fino a qualche anno A. frequentava la scuola nella sua città natale in Nigeria, dove voleva fare la parrucchiera. Abitava dal padre, separato dalla madre. Da quella casa scappò, perché il padre voleva praticarle l’infibulazione, la cosiddetta circoncisione femminile. Allora si rifugiò dalla madre, il cui nuovo compagno, però, prese a molestarla. Allora una donna gentile l’accolse, trattandola come una sorella minore, fino a che, con una scusa, la caricò su un pullman che attraversava il deserto. A. si ritrovò in Libia, dove, oltre a scoprire che doveva 5,000 euro per il viaggio non richiesto, fu costretta a prostituirsi. Da lì riuscì ad andarsene con un uomo che voleva portare lei ed altre ragazze in Austria, ma da cui fortunatamente è scappata quando è arrivata in Italia.

Vi potete ben immaginare come mi sia sentito a tradurre questo racconto, ed averne la protagonista a fianco. Quando vado a fare lezione, il mio primo intendo è cercare di dare una seppur piccola mano a persone come lei, che hanno tanti bisogni materiali, ma anche bisogno di qualcuno che le guardi semplicemente con rispetto.

Il mio racconto finisce qui. Io ne sono molto contento, perché non mi sembra di essere diventato lo stereotipico ingegnere che pensa solo ai suoi file Excel. E per questo penso di dover essere grato anche all’esperienza del collegio, che mi ha dato la possibilità di vivere e studiare con persone con interessi, opinioni e vite diverse dalla mie, aperte al dialogo e allo scambio. E questo non è avvenuto per caso, ma perché l’interdisciplinarietà e la curiosità nei confronti di ciò che è altro da sé è alla base dell’esperienza del Collegio.

Spero che riuscirò a restituire almeno in parte quello che il Collegio, l’Università e quindi in ultima istanza la collettività mi hanno dato.